venerdì 29 giugno 2012

Le migliori Italia-Germania della nostra vita

Gary Lineker, attaccante inglese degli anni Ottanta, diverso tempo fa disse: "Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti e, alla fine, vincono i tedeschi". E in effetti la Germania è sempre lì, arriva sempre in fondo. Però poi, ogni tanto, incontra l'Italia. E gli azzurri giocano una partita perfetta, come quella di ieri sera.


E' capitato così durante il mondiale messicano del 1970, allo stadio Azteca di Città del Messico, dove andò in scena quella che poi sarebbe stata definita la "partita del secolo". In campo c'era forse la nazionale italiana più forte di tutti i tempi, per una partita normale fino al novantesimo ma che poi diventò storica ("grazie" all'errore di Gianni Rivera) nei supplementari. Una partita non perfetta ma emozionante. Una partita che molti ricordano in bianco e nero (ma quello fu il primo mondiale trasmesso a colori) e che ha fatto rimanere sveglia fino a notte fonda più di mezza Italia. Dopo quello sforzo, perdemmo poi la finale con l'invincibile Brasile di Pelé, ma a distanza di più di 40 anni, conta davvero poco.


Un'altra partita storica tra Italia e Germania è ovviamente la finale dei mondiali del 1982, giocata al Santiago Bernabeu di Madrid. La partita più significativa di quel "Mundial", in realtà, forse fu quella del girone dei quarti di finale giocata contro il Brasile, con la celebre tripletta segnata da Paolo Rossi, ma la finale contro i tedeschi fu importante perché consacrò la volontà di un gruppo compatto e propose immagini e suoni indimenticabili, come l'urlo di Marco Tardelli, l'esultanza di Sandro Pertini, il "campioni del mondo" recitato tre volte dal telecronista d'allora Nando Martellini.


Nel 2006, invece, il mondiale si giocò proprio in Germania, e il 4 luglio, a Dortmund, andò in scena la seconda semifinale, tra Italia e Germania, ovviamente. I tedeschi erano sicuri di vincere, anche perché al Westfalenstadion non avevano mai perso nella loro storia. Gli azzurri invece erano in crescita e sempre più compatti. E quella partita fu l'apice del mondiale degli italiani, che poi avrebbero vinto in finale contro la Francia. Un po' per il dominio espresso per larghi tratti della partita e in particolare per gli interi supplementari (in cui Marcello Lippi spinse l'Italia all'attacco con cambi azzeccati), un po' per il gol di Fabio Grosso, un gregario più che un campione, arrivato quasi dal nulla, alla fine, quando tutti si aspettavano i calci di rigore. E a rivederlo, mi viene ancora la pelle d'oca. Sì, perché nel 1970 non ero ancora nato, nel 1982 avevo solo due anni. Quindi è quella del 2006 la "mia" Italia-Germania.


E infine c'è la partita di ieri sera a Varsavia, ultimo capitolo, per ora, di questa rivalità che ci dà sempre molte soddisfazioni. Non importa come andrà la finale contro la Spagna di domenica prossima (ma se vinciamo è meglio, ovviamente), perché questa vittoria, giocata alla perfezione dal nostro centrocampo comandato da Andrea Pirlo e suggellata da una prestazione finalmente strepitosa e decisiva di (Super)Mario Balotelli, vale un intero campionato europeo e ci rimarrà forse impressa per sempre nella mente.



sabato 23 giugno 2012

La scomparsa di un Decano (un profilo di Gene Colan)

Nel primo anniversario della scomparsa di Gene Colan, vi propongo l'articolo che lo scorso anno ho scritto per Fumo di China (con qualche ritocchino).


Inimitabile. Se questo aggettivo viene spesso associato ai grandi artisti, ad alcuni di essi calza in maniera migliore. Tra questi possiamo sicuramente annoverare Gene Colan, maestro del fumetto americano che con Jack Kirby e pochi altri negli anni Sessanta diede vita a una rivoluzione grafica che avrebbe stabilito il nuovo standard almeno per i due decenni successivi.
In realtà, quando Colan approdò alla Marvel di Stan Lee, aveva già alle spalle alcuni anni di esperienza. Dopo gli studi artistici, infatti, iniziò subito a lavorare per le case editrici maggiormente attive nell’immediato secondo Dopoguerra, tra cui Timely Comics (poi Atlas, antesignana della Marvel) e DC Comics. Da ragazzo, Colan aveva molto apprezzato la classica striscia Terry and the Pirates di Milton Caniff e fu dunque da lì, e in particolare dai giochi di luci e ombre, che decise di iniziare la propria evoluzione artistica.
Durante gli anni Cinquanta, però, per sua stessa ammissione, il giovane Colan iniziò a guardare con sempre più attenzione a un altro grande autore suo contemporaneo, Reed Crandall, diventato famoso per la sua collaborazione alle testate horror e fantascientifiche della EC Comics. Anche lo stile di Crandall era parecchio influenzato da quello di Caniff, ma più realistico e soprattutto dotato di quella fluidità nella realizzazione delle anatomie da cui Colan avrebbe attinto a piene mani, rendendola una delle sue migliori peculiarità.


La lezione appresa da Crandall gli tornò utile nei primi anni Sessanta, quando Stan Lee lo arruolò per la neonata Marvel, che aveva da poco lanciato sul mercato personaggi come l’Uomo Ragno, Hulk, Thor e tanti altri, che cambiarono radicalmente il mercato e il modo di fare fumetti di supereroi. Messo al lavoro sulle storie di Iron Man per il mensile Tales of Suspense, Colan utilizzò un approccio più espressionista che in passato. In quegli anni infatti il punto di riferimento grafico della casa editrice era il già citato Kirby, che riusciva a dare alle proprie tavole grande efficacia grazie in particolare alle licenze anatomiche da lui prese. E così i corpi rappresentati da Colan, pur eleganti, iniziarono a contorcersi quasi innaturalmente, fornendo un impatto visivo secondo solo a quello offerto dal lavoro di Kirby. Pur avendo l'artista prestato per poco tempo le proprie matite al personaggio, Iron Man trovò finalmente la propria consacrazione grafica.
Colan fu trasferito sulla testata dedicata a Devil, personaggio che fino a quel momento aveva faticato a trovare una propria identità, sospeso com’era tra Batman e l’Uomo Ragno. Il disegnatore però si adattò molto bene al cosiddetto “metodo Marvel di scrittura”: Stan Lee forniva ai propri collaboratori solo un breve canovaccio dei singoli episodi, aggiungendo i dialoghi solo dopo che questi ultimi li avessero sviluppati (più o meno a loro piacimento) in una storia vera e propria. Colan diede quindi un’impronta più seriosa al personaggio, stabilendo quella che sarebbe stata l’atmosfera della serie almeno fino ai primi anni Ottanta. D’altra parte, Colan si legò in modo indissolubile al Diavolo Rosso, tanto da raffigurarne le storie in maniera continuativa per circa un decennio. Non deve quindi stupire se gli abbiano assegnato il soprannome di “Decano”. Il suo stile, caratterizzato anche da un forte contrasto tra luci e ombre, fu fondamentale per rimarcare l’anima tormentata di Devil, diviso tra le sue due carriere: avvocato di giorno, nei panni di Matt Murdock, giustiziere mascherato di notte.
A fine anni Sessanta, Colan lasciò il segno anche sulle testate dedicate ad altri importanti personaggi, come Namor il Sub-Mariner, il Dottor Strange, Capitan Marvel e Capitan America (sulle cui pagine creò, insieme all’immancabile Stan Lee, Falcon, primo supereroe afroamericano della storia del fumetto statunitense), ma per un’ulteriore svolta della sua carriera si dovette attendere l’aprile del 1972, quando uscì il primo numero di The Tomb of Dracula, da lui illustrato su testi di Marv Wolfman.


La Marvel, infatti, in quegli anni cercava di differenziare le tematiche delle proprie testate e quello fu il tentativo più riuscito di trovare uno sbocco nell’horror. Wolfman e Colan realizzarono un lungo ciclo di racconti (ben 70) di altissima qualità, dando vita a un importante sodalizio che sarebbe entrato di diritto nella storia del fumetto. Il disegnatore prese il celebre vampiro creato da Bram Stoker nel 1897 e lo rielaborò in modo peculiare, fornendogli i lineamenti dell’attore Jack Palance. Il suo stile inoltre si fece ancora più oscuro: le grandi campiture di nero sembravano vive e ricoprivano tutto in modo efficace, dando alla serie un’atmosfera tenebrosa come raramente si era visto in precedenza in un fumetto seriale statunitense. Il layout si adattò di pari passo, perdendo in dinamicità, ma guadagnando in mellifluità, con i contorni delle vignette che si facevano spesso fumosi e indistinti. Su The Tomb of Dracula, inoltre, Colan trovò il suo inchiostratore ideale, Tom Palmer, che con le sue pennellate spesse e decise, contribuì ad accrescere la tenebrosità delle storie.
Autore fedele ai personaggi, ma sempre voglioso di nuove sfide, nel 1973 Colan creò con lo sceneggiatore Steve Gerber il personaggio di Howard the Duck (conosciuto in Italia anche come Orestolo il Papero), dimostrando di sapersi adattare mirabilmente anche a storie umoristiche (da lui affrontate con uno stile più grottesco). Una passione mai sopita, se è vero che nel corso dei decenni successivi si sarebbe spesso dedicato a divertissement di questo tipo, disegnando per esempio alcune storie di Archie e persino una storia di 4 pagine per la Walt Disney (Tomb of Goofula) con Topolino e Pippo (parodia del suo Dracula, scritta tra l’altro dal “solito” Wolfman).
Pur non rinunciando al disegno, dagli anni Ottanta Colan diradò la propria collaborazione con la Marvel. Visto il suo stile “oscuro”, il suo approdo sulle testate Batman e Detective Comics dedicate al celebre Uomo Pipistrello della DC fu naturale.
Nonostante gli oltre quarant’anni di carriera, l’autore però non era ancora pago. Dato che il suo tratto non sembrava essere più al passo con i tempi, decise di iniziare a sperimentare nuovi stili di disegno fuori dal mercato mainstream. I suoi fumetti di metà anni Ottanta (la miniserie Nathaniel Dusk con relativo seguito per la DC e alcune storie per la rivista Eclipse dell’omonima casa editrice) furono suggestivamente realizzate in acquerello.


Nel 1989 fece in tempo a produrre l’opera forse più di rilievo del suo decennio: il serial Panther’s Quest, con protagonista Pantera Nera, scritto da Don McGregor e pubblicato sull’antologica Marvel Comics Presents. La sua Africa ricordava la Transilvania disegnata qualche anno prima per l’aria lugubre e oscura che emanava, e la disperazione dei personaggi trasudava dalle pagine (la storia è ambientata in Sudafrica durante l’apartheid). A tal proposito, in un’intervista Wolfman ha dichiarato che Colan era “un disegnatore in grado di infondere in ogni personaggio cuore, anima e fegato. Guardavi il lavoro di Gene e pensavi che fosse reale”.
Da allora in poi, causa anche recenti problemi di salute, Colan ha centellinato i propri lavori. Tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, infatti, mentre la sua mano si faceva più incerta, pur mantenendo intatta la classe originaria, è stato perlopiù chiamato per operazioni dal sapore dell’amarcord. Con Wolfman, per esempio, ha realizzato nuove storie di The Tomb of Dracula, una con protagonista Blade (il cacciatore di vampiri da lui creato graficamente anni prima) ed è periodicamente tornato a fare capolino sulla testata di Devil (tra cui 5 storie scritte da Joe Kelly e pubblicate a fine 1997). La Dark Horse l’ha persino chiamato a illustrare una storia di Buffy the Vampire Slayer, considerandolo uno dei migliori artisti di sempre sul tema vampirico.
Il suo ultimo lavoro è stato rappresentativo di tutta la sua carriera. Nel settembre 2009 la Marvel ha infatti pubblicato una storia di Capitan America scritta da Ed Brubaker e disegnata da lui, ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale e con vampiri come protagonisti. E Colan non si è limitato a fare il compitino, ma ha tirato fuori una prova di classe, con i colori applicati direttamente sulle sue matite in modo da dare quel senso di opacità tipico delle vecchie foto. La storia, tradotta in italiano come “Sangue rosso, bianco e blu”, ha persino vinto il prestigioso premio Eisner come miglior storia singola.
Una degna conclusione per una grande carriera, interrottasi definitivamente il 23 giugno 2011 all’età di 84 anni. Forse non si può affermare che si tratta di una scomparsa prematura, o che Colan avrebbe potuto partorire ancora molti capolavori, ma siamo certi che la sua cortesia d’altri tempi mancherà molto al fumetto americano.

lunedì 11 giugno 2012

Ipse dixit - Enrico Berlinguer

"Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c'è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull'ingiustizia."
Enrico Berlinguer


martedì 5 giugno 2012

Sacro terrore

Negli scorsi mesi si è fatto un gran parlare di Holy Terror, nuovo lavoro a fumetti di Frank Miller (da sempre uno dei miei autori preferiti) rapidamente sbarcato anche in Italia, con il titolo di Sacro terrore, per la Bao Publishing.


Partiamo dalle note positive. Per la prima metà della storia, Miller si è evidentemente impegnato (con successo) per offrire soluzioni grafiche di un certo impatto (grazie a tavole da cui il nero è stato grattato via per ricavare le sagome, come si può notare dall'immagine qui sotto) e anche alcuni passaggi narrativi piuttosto interessanti dal punto di vista tecnico. In queste pagine l'autore americano sembra aver infatti voluto riprendere il discorso artistico messo da parte per realizzare 300 e l'ultimo Sin City ("All'inferno e ritorno"), tornando a sperimentare con il bianco e nero e inserendo solo poche macchie di colore con una funzione iconica e narrativa, più che prettamente grafica.
Nella seconda parte, invece, i bianchi e neri si fanno più netti, Miller inizia a risparmiare sugli sfondi, ma la sintesi grafica rimane buona e ricorda molto da vicino quella di José Muñoz (come già in passato, tra l'altro). Meno apprezzabile, ma a tratti ancora piacevole.
Nelle ultime pagine, però, Miller appare ancora più svogliato: gli sfondi scompaiono del tutto, l'alternanza tra bianchi e neri perde sostanza, il tratto è tirato via in maniera eccessiva, i personaggi diventano macchiette parodistiche fuori luogo (e probabilmente il caro vecchio Frank cerca di citare, in modo però troppo approssimativo, le esagerazioni anatomiche di Jack Kirby) e l'utilizzo del colore diviene un inutile formalismo.


La scelta del formato orizzontale, sebbene permetta all'autore di sbizzarrirsi con inquadrature particolarmente ardite, sembra più un vezzo che una reale necessità. Se per 300 funzionava molto bene, visto che riusciva a dare profondità scenica alla schiera di soldati spartani impegnati in battaglia, qui sembra non avere davvero alcun senso.
A livello narrativo, poi, la storia manca del tutto di pathos e di drammatizzazione (e anche di una trama vera e propria, a dirla tutta). E' solo un grosso pretesto per fare propaganda anti-musulsumana, così come la storia era stata effettivamente presentata. E i dialoghi, asciutti come nella tradizione hard boiled tanto cara a Miller, risultano però sciatti, a eccezione di una o due occasioni, come quella della tavola qui sotto (in italiano il testo è diventato "Ci diamo alla diplomazia postmoderna"... e se questo è il meglio...).


Insomma, nonostante le pessime opinioni che mi erano giunte dagli States e non solo, ho voluto tastare di persona quale fosse la situazione di questo Frank Miller. Perché mi sembrava che l'attenzione fosse stata eccessivamente riposta sull'idea (ridicola, in ogni caso) di realizzare un'opera fascistoide, razzista, di propaganda, più che su forma e sostanza. Purtroppo, però, devo accettare con profonda mestizia che Sacro terrore è davvero una grossa schifezza, che brilla solo a tratti (e neanche tanto).
Non sminuisce ovviamente quanto di eccellente Miller ha fatto in passato, ma di sicuro getta un'ombra oscura sulla possibilità di leggere suoi nuovi capolavori (ero troppo ottimista anche prima, lo so).
So long, Mr. Miller.